Giamblico, un filosofo neoplatonico della scuola siriana, vissuto nel primo cinquantennio del quarto secolo dell'era volgare, aveva delle idee molto precise a proposito del rito e del rituale. In un' opera dal significativo titolo "De Mysteris aegiptiorum" sosteneva che: " ... anche senza che noi pensiamo, gli stessi simboli compiono da sé l'opera propria, onde non possono dalle nostre intenzioni essere chiamate le cause divine alla attività, le migliori disposizioni dell' anima pre-esistono come concause, ma quello che risveglia veramente la volontà divina sono gli stessi simboli”. Questa è la citazione essenziale del testo, il quale per esteso afferma che: "L'azione teurgica viene compiuta attraverso azioni simbolico-rituali che non possono essere spiegate (perciò sono ineffabili) né tantomeno divulgate. Queste pratiche cariche di simbolismo, riescono nella loro efficacia teurgica, perché le entità sovramondane ed intramondane riconoscono in essi il loro modo di essere. In altre parole, i simboli sono l'immagine delle potenze ineffabili degli intermediari celesti (o anche terrestri) che mettono in comunicazione il mondo così come è vissuto dall'uomo e quello propriamente divino. In questo tipo di concezione il gesto e la parola del rituale, hanno un' efficacia diretta ed immediata perché mettono in moto quelle forze che in basso rispecchiano ciò che c'è in alto.
Questo pensiero, che possiamo definire magico-teurgico, è l'ultima espressione di una civiltà, quella ellenistico-romana, che stava soccombendo di fronte ad un'altra che proponeva un tipo di religiosità che alla fine avrebbe trionfato. Che la magia fosse praticata nel mondo romano, nonostante i severi divieti, lo attestano una infinità di documenti. Nell'Eneide è la stessa Giunone, regina degli dei, che smuove ed evoca le potenze dell' Acheronte sotterraneo, perché vedendosi beffata dal fragile Enea, si rivolge alle potenze degli inferi affinché suscitino odio tra i latini ed i troiani è così l'eroe, figlio di Venere, sia colpito dalle sventure di una nuova guerra. Se gli stessi dei per realizzare le loro finalità si rivolgevano alle potenze intermediarie tra loro stessi e l'uomo, possiamo immaginare quanto fossero diffuse le pratiche di questo genere in una società che "tollerava" ogni e qualsiasi credenza religiosa o magica (nei fatti, le proibizioni delle XII tavole - 450 a.C.- erano lontane).
Lo stesso imperatore Giuliano (361-63) detto dai cristiani l'apostata, si servi della teurgia neoplatonica per vivificare un politeismo oramai morente. Il cristianesimo risultò alla fine vincitore, ma comunque bisogna dire che esso non poté fare a meno di inglobare nel proprio rituale alcune delle modalità della sconfitta religiosità . Alcuni decenni dopo, Agostino, vescovo di Ippona, elaborò in modo coerente la concezione di un rituale che è valido" ex opere operato", come insieme di pratiche funzionanti di per sé, a prescindere dalla dignità morale del celebrante ed anche dalle soggettive intenzioni dei presenti. Nella sua polemica contro i donatisti, Sant'Agostino, afferma che il sacramento è valido di per sé.
Dobbiamo vedere dietro questa concezione una profonda valenza religiosa che non ha nulla a che fare col meccanicismo magico della teurgia precedente, e che trova la sua radice nella Grazia di un Dio che nella sua onnipotente misericordia supera e trascende tutte le limitatezze umane. La pur nobile concezione poetica presente nell' opera virgiliana, che vede la divinità antropomorficamente agitata da passioni e coinvolta nelle miserie umane, viene superata da una trascendente religiosità che vede l'Unico Dio, come Padre, che con la sua Grazia non tiene conto delle nefandezze del cuore umano. Nel grande Padre della chiesa si fa strada un'idea che pur attingendo a piene mani nella filosofia neoplatonica, propone un reale superamento della concezione ellenistica della religione. Un'altra differenza emerge con chiarezza, infatti se nella teurgia del siriaco Giamblico è presente l'idea di una costrizione necessaria delle forze occulte attraverso la pratica corretta del rituale, in quella agostiniana Dio è libero nella sua onnipotente misericordia di superare, con la sua Grazia amorevole, le limitazioni presenti in coloro che con fiducia si rivolgono a Lui. Possiamo perciò fare una prima precisazione: nel rituale teurgico le pratiche gestuali e la parole hanno una efficacia diretta ed immediata, purché lo stesso venga correttamente eseguito, mentre nel sacramento religioso, nel rituale delle religioni monoteistiche, è la Divinità, con la sua amorevole e libera misericordia, a garantire la validità di una preghiera che è nella sostanza diversa, anche se per un profano può essere indistinguibile da una qualsiasi pratica magica.
Dopo aver evidenziato le differenze tra la teurgia come arte magica applicata a fini religiosi, tra il teurgo della religiosità tardo-ellenistica, capace di evocare ed agire sugli dei ottenendo il loro intervento e la teologia agostiniana che invece parlava di un Dio sul quale nessuno può interferire, ma che liberamente sopperisce alle carenze umane attraverso la sua misericordiosa Clemenza, vogliamo adesso delineare ciò che sostiene il pensiero mistico ebraico a proposito del Rito che avviene nel Tempio della Gerusalemme celeste e dei suoi rapporti col Rituale che i sacerdoti ed i leviti officiavano nel tempio di Gerusalemme.
Attualmente il Tempio non esiste, distrutto per la seconda volta dalle legioni dell’imperatore Tito, la prima volta lo demolirono i Babilonesi, sei secoli prima. Attualmente il sacrificio giornaliero è stato sostituito dalla preghiera del pio ebreo e da quella del popolo durante le feste canoniche e dall’adempimento dei precetti da parte del singolo e della comunità. Quando il primo ed il secondo tempio erano in funzione i sacerdoti ed i Leviti officiavano quotidianamente una Liturgia, specificata con meticolosa precisione nel Pentateuco. Le ricorrenze e le feste avevano ognuna la loro specifica ritualità.
A questa prassi liturgica realizzata tutti i giorni nel tempio della Gerusalemme terrena, il misticismo ebraico faceva corrispondere dei ben precisi Riti officiati nel Tempio della Gerusalemme celeste dalle coorti angeliche guidate dall’arcangelo Michele con funzioni di Sommo Sacerdote. Oltre al tempio terrestre come immagine di quello celeste, il popolo di Israele – qui su questa terra – è la speculare somiglianza dell’assemblea dell’Israele celeste, anzi la stretta connessione tra il superiore e l’inferiore viene riaffermata quando nello Zohar si dice che: ”Finchè il popolo di Israele non santifica qui in basso, gli Angeli non proclamano la Santità in alto” (Zohar – III – 190 b).
La tradizione mistica ebraica insegna inoltre che il Signore fece la Gerusalemme in Basso a somiglianza di quella in Alto. Sempre nel libro dello Zohar si sostiene che: “ Il Servizio di Dio in questo mondo è in armonia con quello del mondo superiore e i Mondi sono così unificati ” (Zohar – III – 65b – 66a ).
Nel capitolo LXXI dell’Enoch etiopico viene riferita questa visione: “…e vidi angeli innumerevoli, migliaia e migliaia di Miriadi che circondavano quella Casa e gli angeli santi entravano ed uscivano da quella casa, Michele, Gabriele e Manuele ed innumerevoli Angeli Santi”. In Apocrifi dell’Antico Testamento – I – di P. Sacchi – Milano 1990. Questa letteratura degli Hekalot (che significa Palazzi, o Sale) che comprende il testo ora citato, risale al IV e V secolo dopo Cristo con la rielaborazione di testi del II secolo. Questa serie di testi – scritti in ebraico ed aramaico, con delle formule sacre scritte in greco – sono costituiti dalla decrizione della Liturgia Celeste, che gli angeli del servizio divino celebrano intorno al Trono di Dio.
Come si vede le Teurgia di Giamblico e quella degli Oracoli Caldaici, la Teologia del vescovo cristiano Agostino ed il Misticismo ebraico presente nella letteratura degli Hekalot emergono da quella temperie culturale che caratterizzò gli ultimi secoli dell’impero Romano. Anzi Giorgio Israel, docente di Storia delle Matematiche all’Università “La Sapienza” ed emerito studioso di Kabbalah sostiene che: “L’unico dato certo è che le prime tracce di esoterismo ebraico appartengono al periodo delle origini del Cristianesimo. Secondo alcuni studiosi, un influsso importante nella formazione di queste correnti fu quello del giudaismo alessandrino, influenzato a sua volta dal Pitagorismo, per altri un altro influsso fu quello dello Zoroastrismo persiano.
Per Scholem la miscela culturale determinante fu quella tra un antico gnosticismo ebraico ed il neoplatonismo nel quale non sarebbe secondario il ruolo di Filone di Alessandria. Tutti questi influssi hanno un fondamento inoltre, il ruolo centrale che la numerologia ha nel misticismo ebraico è un legame evidente col Pitagorismo convinto che la chiave per capire il mondo sia il Numero.
In Giorgio Israel – La Kabbalah – Il Mulino – 2005 – Pag 29.
Fate queste premesse di carattere storico-teologico non ci resta che precisare quello che, a nostro parere, è il significato di due parole molto importanti. Il concetto di rituale e di rito vengono talvolta adoperati in modo vago cadendo in slittamenti ed imprecisioni semantiche che possono trarre in inganno non solo i profani, ma anche gli esperti. Nelle società che si proclamano esoteriche, talvolta si identifica il rituale con il rito, anche perché ogni organizzazione (o parte di essa) ritiene di essere la più regolare, quella che meglio rappresenta le esigenze ortodosse e profonde dell' esoterismo. Questa a mio parere è una delle cause che facilitano e perpetuano la confusione, siccome non si può e non si deve farlo, tenteremo di portare avanti un discorso, che partendo da alcuni postulati ci consenta, dopo un insieme di ragionamenti, di pervenire a conclusioni che ci permettano di fare le dovute distinzioni.
Sappiamo che il Rituale romano è il libro che contiene la precisa descrizione della celebrazione dei sacramenti, la recitazione delle benedizioni e dei sacramentali e degli esorcismi. Il Rituale Scozzese invece è il testo contenente le indicazioni che consentono, alla Loggia riunita e presieduta dal Venerabile, di praticare le iniziazioni, i passaggi e le elevazioni, oltre alle aperture e chiusure della stessa Loggia. Se non tutti i presenti conoscono il rituale romano, tutti invece conosciamo nelle sue parti e nelle differenze di grado quello Massonico. Ci siamo tutti accorti per aver praticato quest'ultimo che il rituale, cioè l'insieme delle pratiche gestuali e verbali compiute dalla Loggia nella sua totalità, manifesta sul piano operativo-concreto quello che avviene ad un livello nascosto agli occhi dei più. Qui in basso la Loggia, - sapientemente guidata dal Venerabile, - manifesta ciò che è in alto. In altre parole il Rito archetipo e fondante avviene "in alto", mentre il rituale lo fa apparire qui" in basso"; quest'ultimo è la pratica operativa che realizza il Rito che stabilmente avviene in altre realtà.
Tutte le preghiere delle religioni monoteistiche sono incentrate sulla frase: "Sia fatta la tua volontà come in cielo cosi in terra". Queste parole, talvolta ripetute meccanicamente da milioni di credenti, non fanno altro che esprimere quello che la Fratellanza afferma dall' origine dei tempi e cioè "così come in alto, così è (dovrebbe essere) in basso". Detto questo possiamo fare una prima precisazione; il rituale è una sorta di manuale di perfezionamento che collega gli appartenenti ad una comune fratellanza, consentendo loro di entrare in sintonia con i miti e con i Riti che la fondano e che la rendono, nel tempo, possibile. Il paradigma archetipo del rito è atemporale, invece il rituale è tutto quello che lo rende possibile nel tempo.
Quest'ultimo ci permette di accedere ad una "realtà" profonda e diversa, ma non per questo meno solida, concreta e vera.
Nel Rituale Massonico si attua l'iniziazione ad apprendista, il passaggio a compagno e l'elevazione a maestro, dopo di esso sono previste le cosi dette "officine di perfezionamento" delle quali non vogliamo parlare in questa sede. Concludendo possiamo dire che il rituale, correttamente eseguito in tutti i suoi passaggi, mette in moto dei simboli che consentono di accedere agli archivi dello spirito umano, nei quali sono presenti le radici che precedono i segni e le pratiche attraverso cui operiamo e pensiamo. Queste radici, dell'umanità cosciente, vengono manifestate dal simbolismo presente nel rituale. Ognuno riesce a tirare fuori da queste situazioni, ciò che può e sempre in rapporto all' apertura del proprio compasso.
Concludendo possiamo dire che forse hanno ragione due grandi fisici che sul numero di "Scientic American" (Agosto 2005 pag. 60 e seguenti) scrivono che: “ il mondo che noi viviamo e conosciamo potrebbe essere l'immagine superficiale di una struttura più ampia e della quale noi cogliamo, gli aspetti tridimensionali dello spazio attraverso il nostro senso esterno, ed alcuni aspetti temporali attraverso il nostro senso interno. Probabilmente il panorama completo del "multiverso" che comprende il nostro universo non siamo riusciti ad ammirarlo, perciò' può darsi che questo, sia solo una piccola parte di un insieme più grande ancora per tanti aspetti sconosciuto. Sconosciuto, ma non per questo inesistente.
Il rituale come epifania del rito
Priamo Moi
2012 03
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