Se io non sono per gli Altri, chi sono io! Questa frase può servirci come punto di partenza per sviluppare l'argomento che ci è stato proposto. Il rabbino che la coniò, era una grande talmudista e l'abbinava sempre all'altra che ne costituisce il completamento: "Se Io non sono per me, chi è per Me; se io non sono per gli Altri, chi sono io".
Qui l'Altro è visto come l'opposto necessario allo sviluppo dell'Io, e l'Io come luogo dove rielaborare ed approfondire tutte le sollecitazioni che ci provengono dall'esterno.
In altre parole l'apertura verso il mondo deve essere accompagnata dal ritorno verso la propria interiorità per ritrovare la Verità, quella Verità che abita e vive solo "in interiore homine".
Questa necessità di ripensare in modo personale e riservato, quanto il mondo esterno ci propone, dovrebbe essere una delle caratteristiche più importanti di quel Lavoro silenzioso, che ci consente di evitare tutti quei rumori - interni ed esterni - che ci impediscono di andare verso il significato delle cose.
Di conseguenza l'apertura disponibile e leale nei confronti degli arricchimenti che possono provenirci anche dal più umile degli esseri, deve abbinarsi alla riservatezza riguardante le esperienze proprie ed altrui.
La costruzione del Tempio Interiore, come luogo dove si manifesta il Divino è un procedimento che parte dalla tenace ricerca del proprio Maestro Interno, questa è una ricerca silenziosa che si pone lo scopo di percepire la flebile voce della nostra intimità più profonda, voce sottile sovrastata dal rumore eclatante ed invadente delle nostre passioni.
Siamo convinti che i templi e le cattedrali costruite con i sassi sono realtà importantissime, ma esterne all'uomo; di più grande valore è quel tempio che bisogna costruire nel cuore di ogni essere affinché il Divino possa rivelarsi nell'Umano, realizzando così la frase di Saulo l'ebreo - il San Paolo dei cristiani - che affermava il bisogno di lavorare per la maggiore Gloria di Dio! Cioè per l'Uomo, Gloria di Dio.
Questo nostro agire finalizzato alla elevazione della nostra umanità, deve procedere attraverso il tumultuoso e burrascoso oceano delle passioni, che non potrà mai far naufragare l'Arca della nostra interiorità se riusciremo a illuminarle con la ragione.
Questa esperienza intimamente vissuta dovrà essere suggellata dal silenzio nei confronti degli estranei e tutelata con prudenza persino con le persone a noi più vicine.
Dobbiamo però aggiungere che la chiusura totale ci impedirebbe di crescere e comunicare, ma ribadisco che persino con le persone più care l'avveduta e saggia scelta delle parole è d'obbligo.
A mio parere questo silenzio potrebbe o dovrebbe venire meno solo nel caso che si debba parlare bene degli assenti, che vengono talvolta soverchiati dalle rumorose accuse dei presenti. Tacere quando si ha il dovere di difendere chi non c'è, sarebbe vile codardia oltre che basso egoismo.
La prudenza nel parlare deriva dal fatto che non tutto quello che si sa può essere detto. Però l'arte di tacere non può essere confusa con la malvagia capacità di indirizzare gli altri sulle strade della menzogna e dell'errore attraverso il malvagio e astuto silenzio. Su tutto ciò che può arrecare danno a noi e ad altri si deve tacere, ma se il nostro silenzio provoca un ingiusto dolore allora proclamare la verità è un dovere.
Un dovere che solo con la prudenza può realizzarsi, perché nei cervelli deboli una brutale verità può generare follia.
L'uso intempestivo della parola - anche di una di per sé carica di verità - è stato oggetto di continui ammonimenti. Il Talmud dice che: "se il silenzio è buono per il saggio, quanto di più lo è per lo stolto". Di conseguenza cerchiamo di progredire nell'Arte dell'umile riservatezza perché il silenzio rimedia a tutti i mali.
Essa è non solo una norma prudenziale - adatta ad evitare inutili e dannosi contrasti - ma è un imperativo etico che porta la società verso l'armonia, ed è un dovere morale che favorisce la pace nella nostra coscienza.
La riservatezza, un metodo per stare con gli altri
Priamo Moi
2004 07
2004 07